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Su relazione de Franciscu Casula
PRO S'IDENTIDADE, PRO S'AMBIENTE, PRO SU TRABALLU

Introduzione
Benevennios a custu cungressu feminas e omines, arribaos dae attessu a dae acante, sardos e istranzos. Benevennios sos rappresentantes de sos partidos, associaziones profèssionales e de sos emigraos. Benevennios sos rapresentantes de sos ateros sindacaos; de s'Rdb e mescamente de sos etnicos Valdostanos e sudtiroleses.

Non bido imbezes sos sindacaos cunfederales italianos, CGIL-CISL-UIL: e mi dispiaghede. Puru si non semus de accordu in medas cosas, aviamus chertziu puru a issoso, pro discutere, pro inten-dere sas rejones issoro. Pro cominzare a traballare paris. Ma non bozzo istentare in cumpartas - chi puru suni importantes mescamente pro nois sartlos - e intro derettu in sa chistione de custu Cungressu, "in medias res" - chimente nana sos latinos. E cambio derettu limba e minde iscusu, ma mes difficile meda. Cambio limba e faeddo in italianu ma continuo a pessare in sardu e sardu est totu sa chistione chi bos depo narrere a cominzare mesche da su primu argumentu chi amus postu chimente slogan de custu Cungressu chi nada: pro s'identidade, pro s'ambiente, pro su trabailu. PER L'IDENTITÀ Pro s'identidade duncas. E non poteva essere diversamente per un sindacato etnico che fonda la sua ragione d'essere nella dimensione etno-nazionale dei sardi, ovvero nella sua cultura, nella sua storia, nella sua civiltà e nei suoi valori più alti e autentici: la solidarietà, il comunitarismo, il federalismo in primo luogo. E che tale identità vuole non solo recuperare:: ma sviluppare ed esaltate, per aprirsi e guardare al futuro e non, come qualche idiota può pensare, per rifugiarsi nostalgicamente in una civiltà che non ce più. Per dirla con Giovanni Lilliu, il grande archeologo sardo, vogliamo come CSS recuperare il senso dl appartenenza e delle radici ma soprattutto "quell'umore esistenziale del proprio essere sardo come individui e come gruppi, che in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l'attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e dalla loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente, dalle catene imposte dal dominio esterno". E uno degli strumenti formidabili per "sprigionare il movimento" pensiamo sia la lingua, non solo come strumento e arma di lotta, ma perché espressione e rappresentazione della vita di un popolo, così come la concepiva il grande filosofo e linguista austriaco L.Wittegenstein: "La nostra lingua è come una vecchia città - diceva un labirinto di viuzze, di case vecchie e nuove, di palazzi costruiti in epoche diverse e intorno la cintura di nuovi quartieri periferici con le strade rettilinee e regolari e con i caseggiati tutti eguali". La rivendicazione della lingua non è però per noi un fatto solo culturale, pure importante, ovvero l'affermazione dell'identità e dell'alterità, PROBLEMA ETNO-LINGUISTICO E SVILUPPO Il problema della lingua per noi s'intreccia infatti con questioni più vaste e complesse concernenti l'autonomia regionale, l'autogoverno del popolo sardo ma soprattutto il tipo di sviluppo e di civiltà per la Sardegna degli anni duemila, soprattutto a fronte dei guasti e dei disastri provocati "dall'inciviltà industriale" (l'espressione è dello scrittore comunista Paolo Volponi) che ormai 'minaccia la stessa sopravvivenza della specie e del pianeta. Solo fino a qualche decennio fa sembrava vittoriosa su tutti i fronti l'ideologia vacuamente ottimi-stica "nelle magnifiche sorti e progressive" tutta basata su una crescita e uno sviluppo materiale illi-mitato, che avrebbe dovuto eliminare il sentimento stesso di etnicità, le nazionalità minori e margi-nali, abrogando le loro specificità e diversità linguistiche e culturali, bollate come primordiali e arcaiche, quando non veri e propri cascami e residui del passato. Sull'altare di tale sviluppo e progresso, scandito dalla semplice accumulazione di beni materiali e fondato sulla onnipotenza tecnologica si sono sacrificati e distrutti lingue, codici, culture, soggetti, intere etnie.

SVILUPPO E CATASTROFE ANTROPOLOGICA
Si è trattato e si tratta di una vera e propria catastrofe antropologica, se solo pensiamo a quanto ci ha reso noto il Centro Studi di Milano "Luigi Negro" secondo il quale ogni anno scompaiono nel mondo dieci minoranze etniche e con esse altrettante lingue, modi di vivere originali, specifici e irri-petibili, culture e civiltà. Il pretesto e l'alibi di tale "genocidio" è stato che occorreva superare, trascendere e travolgere le arretratezze del mondo "barbarico" le sue superstizioni, le sue aberranti credenze, i suoi vecchi ed obsoleti modelli socio-economici-culturali: espressioni di una civiltà preindustriale ormai tramontata. I motivi veri sono invece da individuare nella tendenza del capitalismo e degli Stati - e quindi delle etnie dominanti - a omologare e assimilare, in nome di una falsa unità, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell'universalità cosmopolita e scientifica, le etnie minori e marginali e con esse le differenze e specificità, in quanto altre e scomode. In questo modo le lingue delle minoranze vengono degradate, represse e "tagliate" in ossequio alle lingue "di Stato" imperanti e imperiali omologanti e impoverenti, anche perché loro stesse ormai giunte all'afasia quasi totale; in questo modo vengono distrutti e saccheggiati interi patrimoni culturali fatti di espressività popolare, di codici etici, religiosi e giuridici, di memoria e vissuto stori-co, di tesori artistici.

SVILUPPO E AMBIENTE
L'attuale sviluppo industrialista e capitalista non attenta però solo all'identità e specificità dei popoli, ma devasta e depaupera il territorio, degrada e inquina l'ambiente. Perché è uno sviluppo basato sul consumo intensivo delle materie prime e delle risorse naturali - di cui accelera ogni gior-no di più l'esaurimento - e sulla produzione di merci finalizzate alla realizzazione di un profitto economico immediato che può continuare a riprodursi solo a costi sociali e ambientali assolutamente superiori rispetto ai vantaggi che è in grado di produrre. Che inoltre con il suo bisogno imprescindibile di produrre sempre più e al più basso costo possi-bile, sfruttando intensivamente le risorse, genera spreco e inquinamento ed è ormai vicino a una vera e propria incompatibilità ambientale ed umana. Infatti la devastazione della natura, con danni profondi agli ecosistemi (il buco nell'ozono, la fine delle foreste, il problema delle acque, dei rifiuti, ecc.) e alla salute degli esseri umani (nuove malat-tie fisiche, esteso malessere psichico) ha ormai raggiunto livelli drammatici, sempre meno compati-bili con I processi e i cicli biologici. E non potrebbe essere diversamente dal momento che lo sviluppo è stato valutato in termini esclusivamente monetari, di prodotto nazionale, di costi aziendali, facendo coincidere il benessere con la concentrazione industriale, con la crescita quantitativa dei consumi, dei profitti e del salari, a prescindere dal fatto che producano beni e servizi utili e senza computare i costi in termini di risor-se naturali equilibri ambientali, rinnovabilità delle risorse, sistema degli organismi viventi e sua riproducibilità, giacimenti culturali ed artistici. Uno sviluppo che in pochi decenni ha dissipato risorse accumulate in milioni di anni di storia biologica e che se la crescita continuasse al tasso attuale e/o fosse estesa a tutto il Pianeta in poco tempo - nell'ordine di decenni - potrebbe provocare alterazioni irreversibili con conseguenze cata-strofiche sugli elementi sia biotici che abiotici della biosfera. Che già oggi provoca negli stessi fruitori di tale sviluppo, ovvero nei paesi industrializzati nuove barbarie, situazioni di invivibilità con le. fabbriche dei veleni e dei rifiuti o le sofisticazioni alimentari. Uno sviluppo che si rivela incompatibile con i tre quarti dell'umanità cui apporta oppressione, fame e morte. Nel terzo e nel quarto mondo, spogliato delle risorse, ogni ora muoiono infatti di fame 2500 per-sone di cui 1600 bambini; ogni giorno 60.000 persone di cui 4Omila bambini, ogni anno 22 milioni di persone di cui 15 milioni bambini. Pur producendosi nel pianeta 300 milioni di tonnellate di cereali più del necessario. Pur spendendosi annualmente miliardi in armi, certamente sufficienti a eliminare la fame del pianeta. Armi che per lo più i paesi industrializzati vendono, guarda caso, ed esportano proprio nel terzo e quarto mondo salvo poi dichiarare guerra a qualche satrapo locale diventato troppo potente e pericoloso per gli stessi interessi economici dell'Occidente: Saddam Hussein insegna. Altro infame traffico dei paesi ricchi nei confronti dei paesi poveri riguarda i rifiuti: il Nord del pia-neta infatti dopo aver defraudato delle materie e del lavoro (a basso costo) il Sud del mondo, oggi con il sistema giugulatorio dei debiti li costringe a farsi pattumiera dei residui dei propri consumi, comprandosi così la salute attuale e futura. (Secondo i dati dell'ONU gli USA e l'Europa vendono sco-rie tossiche a 15 nazioni dell'America latina, 7 dei Caraibi, 13 dell'Africa, 15 dell'Asia: e l'Italia in que-sto cinico traffico si colloca ai primi posti producendo 55 milioni di tonnellate annue di residui).

Questo a nostro parere lo scenario mondiale: di cui abbiamo con piacere letto analisi omologhe nella recente enciclica del Papa.

CRITICA TEORICA E PRATICA DELL'INDUSTRIALISMO
Ma oggi finalmente e fortunatamente la fiducia cieca nel progresso lineare, indefinito e inarresta-bile, tutto giocato sull'industrialismo - nella duplice versione capitalistica e collettivistica - è drasti-camente messo in discussione. Intanto teoricamente da storici, scienziati sociali, ecologi: pensiamo solo all'italiano Enzo Tiezzi (che in "Tempi Storici e Tempi Biologici" ci ricorda i limiti oggettivi delle risorse naturali - soprattut-to energetiche - e quindi dello sviluppo), l'era del "mondo finito" di cui parla Paul Valery"; all'ameri-cano Alvin Toffler (che in la "Terza Ondata" sostiene la crisi dell'industrialismo e la necessita di una nuova civiltà non più basata sulla concentrazione - centralizzazione - standardizzazione - omolo-gazione) o al teorico marxista e terzomondista arabo Samir Amin (che in la "Teoria dello sgancia-mento", prospetta la necessita di fuoriuscire dal sistema occidentalista). O ancora all'ecologista indiana Yandara Shira (che in "Sopravvivere allo sviluppo" denuncia le distorsioni irreparabili degli obiettivi di sviluppo). Ma l'industrialismo e lo statalismo inizia ad essere criticato anche praticamente dà centinaia di milioni di uomini e donne, da comunità e gruppi locali, dall'ambientalismo sociale, da partiti politici - pensiamo solo in Europa dall'Spd, da sindacati etnici, da nazioni senza stato, incorporate coattivamente in imperi e stati autoritari (lettoni, lituani, etc.) che contestualmente lottano contro le centrali nucleari e le industrie inquinanti e rivendicano autonomia e indipendenza.
LA CSS CONTRO L'INDUSTRIALISMO
Dentro quest'orizzonte teorico e pratico ci collochiamo noi della CSS, come sindacato etnico. Partendo da questo presupposto teorico e pratico critichiamo lo sviluppo industrialista tutto giorno sulla petrolizzazione dell'Isola e sulla grande industria di base sperimentato e attuato in Sardegna in questi ultimi trent'anni: uno sviluppo che noi consideriamo fallimentare e definitiva-mente chiuso. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: proprio in questi mesi assistiamo drammaticamente alla fine ingloriosa di un intero ciclo.
PPSS E SVILUPPO INDUSTRIALE IN SARDEGNA
L'intervento straordinario delle PPSS e dei suoi grandi Enti (ENI, IRI, ecc) ci sta consegnando, dopo anni di promesse, illusioni programmatorie e petrolchimiche, un cimitero di industrie e quel che è più grave, altre migliaia di disoccupati. In crisi è oramai l'intero apparato industriale sardo: da quello minerario a quello minero-metallurgico, da quello chimico a quello agro-alimentare. Nel settore minerario l'ENI-SIM vuoi chiudere definitivamente Monteponi e Masua, dopo aver chiuso Gadoni e Montevecchio. Nel settore chimico l'ENICHEM: 1) vuol fermare gli impianti a Villacidro (ex Snia); 2) minaccia la chiusu-ra dello stabilimento di Macchiareddu (ex Rumianca); 3) denuncia esuberi persino a Ottana e Portotorres. Nel settore minero - metallurgico: la nuova Samim rischia di chiudere la fonderia di San Gavino e minaccia ristrutturazioni ed esuberi a Portovesme. E intanto si concentra lo zinco a Crotone. L'Efim inoltre ha presentato la proposta di espellere lavoratori nel settore alluminio. Ci fermiamo qui ma l'elenco potrebbe continuare. Che ci si trovi di fronte al fallimento di una ipotesi di sviluppo, di una intesa politico industriale ci sono dubbi.
FALLIMENTO DI UNA IPOTESI DI SVILUPPO
E quello che succede in queste settimane è solo l'epilogo di una crisi annunciata, di un fallimento scandito nel tempo da ristrutturazioni, ridimensionamenti, licenziamenti, chiusure di fabbriche e di aziende e fotografato impietosamente da una serie di dati ufficiali dell'ISTAT: il divario fra Nord e Sud è cresciuto e dal punto di vista occupazionale e dal punto di vista del reddito. Nel ventennio 1951-1971 l'occupazione complessiva del Sud, sull'occupazione nazionale è passa-ta dal 31% del '51 al 29,5% del '71; in agricoltura dal 40,8% del '51 al 49,7% del '71. I Sardi in cerca di prima occupazione 5000 passati dagli 82.000 deìl'80 ai 124.000 dell'89. Gli occupati nel settore industriale - che doveva appunto risolvere il problema occupazionale sono passati dai 135.000 dell'80 ai 121.000 delI'89 (dati Istat elaborati dallo Svimez). L'85% dell'industria in Sardegna è rappresentata dalle grandi aziende delle PP.SS., il 15% da pic-cole e medie industrie. Il 37% della complessiva produzione industriale della Sardegna viene esportata, ma si tratta, in buona parte, dei prodotti semilavorati delle grandi imprese chimiche o metallurgiche a partecipazione statale Il valore aggiunto nell'industria cresce pochissimo e, comunque, molto meno che negli altri settori. Nel '51 il valore aggiunto prodotto nel Sud era del 25,7~/o rispetto al valore aggiunto prodotto in Italia. Nel '72 è stato del 23,59%. Nell'88 in Sardegna è cresciuto dello 0,90/o. Nel '90 del 2,7% mentre negli altri settori è aumentato del 3,2%. Continua ad aumentare anche il divario tra Sardegna ed Italia in quanto a produzione di ricchezza per abitante.

L'Isola passa, inoltre, sempre in rapporto alla produzione di ricchezza tra le regioni italiane, dal 140 posto dell'83/84 al 150 posto dell'88/89, producendo in quest'anno il 61,67% a fronte del 106,52% del Nord-Ovest d'Italia, del 101,1% del Centro-Nord e dell'84% dell'Italia. Ma, a parte il fallimento dell'industrializzazione di base in termini occupazionali e materiali (produzione, reddito, benessere, etc.) occorre sottolineare le sue conseguenze devastatrici in termini ambientali e culturali. La Sardegna, stazione di servizio per industrie nere ed inquinanti oltre che di basi e servitù milita-ri è stata, infatti, caratterizzata da un modello di sviluppo che: 1) ha devastato e depauperato il territorio, la risorsa più pregiata che l'Isola detenga; 2) ha degradato ed inquinato l'ambiente e il mare (pensiamo solo a Sarroch e Portotorres, con danni incalcolabili per la pesca); 3) ha sconvolto gli equilibri e le vocazioni naturali; 4) ha distrutto il tessuto economico tradizionale e quel minimo di imprenditorialità locale (soprattut-to nel settore agro-alimentare); 5) ha attentato alla cultura ed all'identità etno-nazionale dei Sardi, tentando di eliminare le specifì-cità-diversità linguistiche, culturali, storiche, etniche con il pretesto magari di combattere la violenza ed il banditismo: è il caso Soprattutto di Ottana. Nonostante tutto ciò e nonostante autocritiche for-mali si continua nella stessa direzione di sempre sia da parte delle forze politiche che dei sindacati italiani: colossali finanziamenti alla chimica di base (500 miliardi sono stati recentemente promessi dalla Regione all 'Enimont). È pur vero che CGIL-CISL-UIL parlano ed hanno sempre parlato di "verticalizzazione", di integra-zione fra i vari comparti della petrolchimica, chimica secondaria, parachimica, di cicli integrati quali miniere-metallurgia-agricoltura-industria. Ma tali richieste sono rimaste presenti solo nella. loro fantasia. La realtà nuda e cruda rimane quella del foraggia mento da parte statale e, quello che è ancora piò grave, da parte regionale, dei grandi padroni privati e pubblici della chimica italiana, per le prime lavorazioni. E ciò per conservare qualche migliaio di posti di lavoro, su cui pesa annualmente la rninaccia, ed il ricatto dei licenziamenti. Come CSS sosteniamo con forza che certo bisogna difendere con le unghie e con i denti i posti di lavoro nell'industria ma contestualmente riteniamo che occorre cambiare radicalmente rotta imboc-cando un itinerario di nuovo sviluppo e di nuova civilta lungo quattro direttrici fondamentali.
IL LAVORO E L'OCCUPAZIONE
Il lavoro rimane in Sardegna l'obiettivo centrale, soprattutto in questa fase Storica che vede l'isola detenere il record dei disoccupati non solo in Italia ma nell'intera comunità europea. E a nostro parere il problema dell'occupazione non può né oggi né in prospettiva essere risolto all'interno della vecchia illusione petrolchimica, magari riverniciata sotto le vestì di "reindustrializza-zione" (polo chimico) bensì con la Regione principale soggetto dl programmazione (capovolgere art. 13 Statuto Sardo) attraverso uno sviluppo endogeno e autocentrato che abbia in Sardegna i suoi centri decisionali (finanziari, tecnologici etc.) e che si attui attraverso un'economia socializzante, cooperativistica, di piccole e medie imprese e industrie.
AUTOSUFFICIENZA ENERGETICA
Per superare gli sprechi delle risorse soprattutto di quelle non rinnovabili, (ad iniziare da quelle energetiche). E a questo proposito ribadiamo con forza la nostra parola d'ordine della necessita dell'autosufficienza energetica per l'Isola. E ciò è possibile. La Sardegna possiede il carbone che costituisce la più grande quantità di energia in Italia: tradotto in numeri il bacino carbonifero del Sulcis rappresenta infatti i due terzi delle risorse nazionali: 1300 milioni di tonnellate in situ. Occorre procedere immediatamente alla gassificazione del carbone: i tempi sono maturi, è stato elaborato un progetto da parte dell'IST (impresa sviluppo tecnologico) già da quattro anni. L'ENEL non può più avere pretesti per procastinare la gassificazione. Anche perché dobbiamo ricordare che la Sardegna è l'unica regione italiana non servita dalle reti di distribuzione del metano. Quando parliamo di autosufficienza energetica pensiamo certo al carbone gassificato, risorsa locale strategica moltiplicatrice di sviluppo e occupazione, ma anche alla valorizzazione delle fonti energetiche alternative pulite e rinnovabili, abbondantemente presenti nell'isola: quella solare innanzitutto oltre che quella eolica, geotermica etc.

AUTOSUFFICUENZA AGRO-ALIMENTARE
Per rispettare i diritti delle generazioni future, producendo valori d'uso più che di scambio: aria e acqua pulita innanzitutto. E prodotti agro-alimentari. A questo proposito non possiamo non ricordare questa assurdità: la Sardegna, Isola ad alta vocazione agro-pastorale spende annualmente ben 1000 miliardi per acqui-stare dai paesi più strani e lontani prodotti alimentari. Importando il 60% della carne, il 25% del latte, il 33% dei formaggi vaccini, il 500/o delle uova. Ci sono le bronzee leggi del mercato e dei costi? Ceno: ma come non ricordare che i paesi dell'Est o l'Argentina trattano la carne con sostanze chimiche, che noi non possiamo usare, per cui possono produrre a costi più bassi? Rinegoziare i vincoli CEE crediamo sia assolutamente urgente ma su questa questione emblemati-ca con ben altre competenze parleranno molti convegnisti.
TRASPORTI
Per tendere all'espansione del consumo collettivo più che individuale: ad iniziare dai trasporti, un nodo storico da risolvere che rappresenta ancora oggi uno dei maggiori handicap dell'economia sarda e rispetto al quale abbiamo presentato all'Assessore regionale un articolato progetto di trasporti regionali. Qui voglio solo ricordare che senza l'espansione del trasporto pubblico (a Cagliari vi sono 130 autobus su 400 necessari secondo la media comunitaria e rappresenta in assoluto la percentuale più bassa d'Italia) nel giro di qualche anno Cagliari sarà assolutamente congestionata dal traffico se pen-siamo che già oggi la sola area di viale Trento, via Roma, via Sonnino, via Bonaria è intasata da 90 mila automobili al giorno, e Cagliari e le grandi periferie dell'Hinterland da 400 mila macchine. Ho volutamente posto in rilievo il problema energetico, quello agro-alimentare e quello dei trasporti perché li consideriamo strategici per l'occupazione e lo sviluppo e per una economia endogena insieme a quello dell'acqua. Problema drammatico quest'ultimo.
ECONOMIA ENDOGENA
Questa a nostro parere deve prevedere: 1) cicli produttivi tesi alla verticalizzazione di tutte le materie prime e di tutti i semilavorati p~ dotti in Sardegna in tutti i settori, perché in questa maniera si accumula nell'Isola il massimo possibi-le del valore aggiunto: solo in questa direzione possiamo avallare finanziamenti regionali pubblici alle imprese; 2) uno sviluppo integrato fra pastorizia, agricoltura, pesca, industria, turismo ed artigianato per la valorizzazione massima di tutte le risorse locali; 3) una riorganizzazione (e contestualmente il miglioramento quantitativo di tutto il comparto dei servizi: scuola, Rai TV, trasporti, sanità, credito, poste, Enti loocali, Enel, Sip, ecc.) su basi realmente pubbliche e, cioè, sarde e non statali come oggi sono, o privastici e privatizzati come il Governo vorrebbe oggi i servizi: dalle poste ai trasporti. Solo diventando realmente pubbliche possono soddisfare i bisogni della popolazione sarda, creando nuova occupazione, difendendo ed esaltando la cultura e l'identità etno-nazionale dei sardi (soprattutto attraverso la scuola ed i grandi mezzi di comunicazione: giornali, Rai-TV, etc.). IL TERRITORIO E L'AMBIENTE 1) Il territorio è la risorsa primaria, più pregiata e preziosa che noi sardi possediamo e, come tale, non può essere considerato mero supporto di attività economiche o, peggio, oggetto merce da con-sumare e buttare, una volta degradato ed inquinato. Il territorio deve, al contrario, essere considerato come sistema complesso di identità geografi-che, ambientali, storiche, culturali e linguistiche" da fruire salvaguardandolo e valorizzandolo. 2) I paesi sardi rischiano oggi e lo spopolamento e l'estinzione odi cadere sotto la colata lavica delle metropoli-osmopoli e di essere, quindi, travolti ed uccisi dal consumismo e dalla omologazione. Peggio, rischiamo di far propri tutti i disvalori delle metropoli (violenza, teppismo, delinquenza, droga di cui la cronaca è zeppa quotidianamente - ipertraffico, inquinamento) senza neppure fruire di alcuni vantaggi delle città (servizi, scuole etc.). Nel migliore dei casi tendono ad essere mere articolazioni territoriali funzionali a sistemi econo-mici eterodiretti. Noi riteniamo che i paesi sardi debbano esercitare il ruolo di soggetti produttivi di beni, servizi, cultu-ra, identità in un rapporto di scambio attivo e valorizzante con il proprio territorio ed i su(>i equilibri comunitari, energetici ed ambientali, immaginando, progettando e costruendo modelli di sviluppo fon-dati direttamente sulla valorizzazione del territorio e sulla riappropriazione delle risorse da parte delle comunità insediate. E, insieme, dandosi nuove forme di autogoverno comunitario utilizzando gli spazi offerti dalla 142 con la stesura di Statuti a loro misura, che consentano la sperimentazione di produzioni ecologicamente appropriate e quantitativamente alte e pregiate, fondate sul bisogno di elevare la qua-lità ambientale e favorendo la crescita di attività complesse (artigianali, agricole, culturali) che diano ad ogni paese identità e possibilità di scambi non gerarchici con gli altri paesi e, soprattutto, con le città. In queste occorre trasformare le periferie in "villaggi", promuovendo sistemi territoriali policentri-ci, dotati di alta capacità informativa, in grado di superare rapporti gerarchici fra centro e periferia e sviluppando relazioni e scambi multipolari, non lesivi dell'autonomia dei singoli centri.

Molti sono i problemi da affrontare nelle città, ad iniziare da quelli ambientali: contro i rifiuti nocivi ed I megadepuratori, l'inquinamento ed il traffico, la lotta per la pedonalizzazione ed il verde, i parchi e le piste ciclabili, la riqualificazione urbana e l'agricoltura biologica. Tutti questi problemi, comunque possono essere risolti alla radice solo dentro un orizzonte progettuale di sviluppo e di civiltà "altro" ed altemativo a quello industrialista ed urbanizzante che abbiamo conosciuto e conosciamo. 3) L'ambiente costituisce per noi della CSS una variabile indipendente su cui non vi può essere nessun compromesso o baratto, anche il più nobile e conveniente (vedi baratto occupazione accet-tazione dei rifiuti di Manfredonia). Ciò perché a lungo termine, quando si devasta o si degrada l'ambiente, si distrugge la possibilità stessa di creare lavoro. È, quindi, da respingere con forza l'alternativa ed il dilemma: o ambiente o lavoro, affermando che non solo non vi è contraddizione, ma che è proprio la salvaguardia ambientale a porre le basi del lavoro.
LA DEMOCRAZIA (FEDERALISTA E COMUNITARIA)
Il binomio occupazione-ambiente, lo sviluppo endogeno ed autocentrato, la "modernizzazione senza urbanizzazione" come ama chiamarla Eliseo Spiga che contesta e si oppone ai grandi sistemi produttivi metropolitani, accentrati e gerarchizzati e, insieme, afferma ed implica un reticolo di sistemi territoriali distribuiti e diffusi, si coniuga strettamente con una democrazia capillare, partecipata, comunitaria. A livello istituzionale lo strumento fondamentale perché tale democrazia si affermi è un nuovo statuto regionale che preveda per la Sardegna tutti i poteri che permettano una reale autodecisione ed un reale autogovemo della nazione sarda, pur rimanendo, questa, all'interno dello stato italiano ai è, ormai storicamente, incorporata. I rapporti tra lo Stato italiano e la Sardegna sono stati codificati e poi praticamente secondo un'ideologia tipicamente statalista, unitarista e italocentrica, basata, cioè, sulla negazione dell'iden-tità nazionale dei sardi e sul tentativo di annullare la loro diversità-specificità, cercando di assimilarli omologarli agli italiani semplicemente per integrarli e dominarli meglio. Il nuovo statuto, nel riscontrare i rapporti politico-giuridico-istituzionali, non potrà prescindere riconoscimento dell'identità nazionale dei Sardi e non potrà, quindi, non nascere su basi federaliste che inizi a disegnare e fondare uno stato non più centralista e monoetnico ma federalista, plurinazionale, plu-rietnico. Affermare un nuovo statuto regionale su basi federaliste, che preveda per i sardi tutti i poteri necessari per l'autodeterminazione, non deve significare che i poteri decisionali devono essere concentrati nell'ente regione: a scapito e contro le autonomie locali. Non vogliamo, in altre parole, riproporre un neocentralismo su basi regionali: il potere regionale, infatti, deve essere il più dissimile possibile dal potere dello Stato e, quindi, può esistere solo nella forma del più articolato e reale autogovemo del popolo sardo. Proprio per l'esperienza che abbiamo avuto in questi 40 anni di autonomia regionale, pensiamo, perciò, ad un potere diffuso, decentrato, distribuito, ubiquitario. Pensiamo, quindi, non solo al potere dell'Ente Regione, ma degli enti locali di dimensione subre-gionale, soprattutto i comuni ma anche le province. C'è di più: il concetto di "autonomie locali" deve estendersi anche a quelle articolazioni democra-tiche di base che, pur non essendo istituzionalizzate, si pongono come rappresentative di interessi generali della collettività. In questo senso pensiamo che il nuovo Statuto debba espressamente pre-vedere forme di riconoscimento, sostegno e promozione di organismi popolari che realizzino, in forme nuove e dinamiche, la partecipazione delle popolazioni alla gestione del potere. QUADRO TEORICO E PROGRAMMATICO DELLA CSS Questo che abbiamo cercato di delineare è il quadro ideale, teorico, e programmatico in cui come CSS abbiamo operato e vogliamo operare: ai congressisti il compito di approfondirlo, correg-gerlo, articolarlo in progetti, vertenze, iniziative. Come del resto abbiamo fatto in questi tre anni rispetto all'occupazione come rispetto all'ambien-te: per tutte voglio ricordare la nostra battaglia vincente sulla dichiarazione del Polo industriale di Portovesme come zona ad alto rischio ambientale. Questo quadro, questa analisi deve per noi costi-tuire la bussola della nostra azione: separare il problema dell'occupazione da quello ambientale o Il problema economico e sociale da quello culturale e etno-nazionale significa infatti continuare nella vecchia strada economicistica i cui risultati fallimentari sono a tutti sotto gli occhi.


CGIL-CISL-UIL E VIZIO DI ONESICRITO
Significa ripetere il vizio di Onesicrito che tra il 332 e il 336 a. C. aveva visitato l'India al seguito di Alessandro Magno riportandone descrizioni alquanto fantasiose che misero a lungo fuori strada i geografi dell'epoca.
E questo vizio a nostro parere consiste da parte dei Sindacati Italiani nel considerare la questione sarda come semplice frammento o appendice della questione meridionale e non come questione nazionale sarda che come tale deve essere affrontata. Il senso della costruzione di un Sindacato etnico sta proprio qui. E a chi ancora oggi ci blandisce dicendoci che questa analisi potevamo portarla avanti rimanendo dentro CGlL-CISL-UIL rispondia-mo con una frase di Padre Piantacuda pronunciata in occasione della fondazione della "Rete" di Leoluca Orlando: quando i canali sono ostruiti occorre rimuovere l'ostruzione, ma "quando ciò non è possibile, occorre costruire canali nuovi". Noi per anni dentro CGIL-CISL-UIL abbiamo cercato di rimuovere l'ostruzione: combattendo da una parte l'industrialismo e le vecchie analisi economiciste sulla questione sarda, dall'altra il rnodel-lo sindacale statalista e ormai compromesso con Partiti, Governo e Padronato. Non ci siamo riusciti e abbiamo costruito nuovi canali. E oggi più di ieri siamo convinti della giustezza della nostra scelta.
CRITUCA ALLO STATALISMO DI CGIL-CISL-UIL
A tal punto che persino esponenti dei Sindacati Italiani (o dell'area) iniziano a darci~ragione. Ha Scritto su "Solidarietà" periodico del Trentino, Edoardo Benuzzi segretario generale della CGIL del Trentino: "il modello statalista del Sindacato Italiano, che comporta un pesante-centralismo ver-ticistico non riesce più a mediare - con il sistema della delega rilasciata a rappresentanze sempre più ristrette e alte - le spinte divaricanti del mercato del lavoro, delle condizioni dei lavoratori, dei diritti dei singoli e della collettività, intesa come singoli che interagiscono concretamente, cioè come comunità". E prosegue: "Ai crescenti bisogni di emancipazione e di liberazione i Sindacati rispondono pre-sentando gli interessi generali come contrapposti a ogni istanza di base, ciò ha stravolto la funzione della politica del Sindacato, riducendola ad arte del dominio e del controllo sociale non ad arte della trasformazione". Ha scritto un alto dirigente sindacale della CGIL, Giampiero Castano segretario generale della FIOM Lombarda, sul quotidiano il Manifesto dell'8 febbraio scorso: "la forma Sindacato che ancora sopravvive si fonda sul centralismo. Ora io penso che questa forma debba mutare profondamente per lasciar posto a un nuovo sistema di autonomie che favorisca lo sviluppo delle diversità sociali territoriali e professionali, una nuova diffusione dei poteri e delle autonomie". Certo è difficile smantellare una macchina così grande e complessa ma è necessario - afferma l'on. Pasquino parlamentare della sinistra indipendente nell'Unità del 10gennaio scorso - "perché il Sindacato Confederale così come è ora è irreversibilmente destinato a morire", in quanto si è ridotto a una testa/centro incaricata di avallare scelte strategiche compiute da chi realmente governa la politica e l'economia".
CONTRO LA CONTRATTAZIONI CENTRALIZZATA
Si tratta di analisi da noi della CSS assolutamente condivise e il fatto che inizino a trovare consen-so fra dirigenti importanti dei Sindacati italiani confederali non può che farci piacere. Anche perché rompere il centralismo dei Sindacati italiani significa iniziare a rompere quello che noi riteniamo la pratica più nefasta e iniqua per i lavoratori sardi: la contrattazione centralizzata, cosiddetta "nazionale". Con essa un vertice ristrettissimo di dirigenti sindacali (spesso i tre segretari generali della CGII decidono con Governo e Padronato i contratti dei lavoratori, rispettando più le compatibilità economiche appunto del Governo e del Padronato che i bisogni dei lavoratori. Contratti su cui i lavoratori di fatto non possono mettere becco perché non si possono modificare. In questo modo i lavoratori vengono espropriati di una qualunque capacita decisionale e persino del voto sui contratti stessi. In questo modo viene eliminata qualunque forma di democrazia diretta. Addirittura un accordo fra CGIL-ClSL-UlL ha stabilito che i membri del Consiglio di fabbrica solo per i 2/3 possono venire eletti dai lavoratori perché il restante 1/3 viene nominato d'ufficio dai Sindacati!

RAPPRESENTATIVITA' SINDACALE
È come - ha affermato a Cagliari Sergio Garavini ex segretario nazionale della CGIL - se i 2/3 dei consiglieri comunali di Cagliari venissero eletti dai cittadini e il rimanente 1/3 venisse nominato d'ufficio dal Prefetto! I Siamo arrivati, come ognuno può notare al più totale dispregio della democrazia e della libertà sindacale: di tutti I lavoratori ma soprattutto di quanti non sono iscritti ai sindacati Confederali Italiani. Gli è che CGIL-CISL-UIL pensano di rappresentare tutti i lavoratori: ma così non è: sempre più numerosi sono i quadri sindacali e gli operai che non si riconoscono in loro. Ebbene, nonostante queste nuove realtà, abbiamo ancora una legislazione (mi riferisco in modo particolare all'art. 19 dello Statuto del lavoratori) che di fatto "riconosce" come unici rappresentanti dei lavoratori CGIL-CISL-UIL escludendo gli altri Sindacati dalla contrattazione e dall'agibilità sinda-cale in fabbrica e nei luoghi di lavoro. Sbaraccare quest'armamentario legislativo liberticida e illiberale è per noi urgente: in questa dire-zione abbiamo preparato una proposta di legge, perché "rappresentativo" sia chi realmente ottiene consensi nei luoghi di lavoro non chi è legittimato dallo Stato e chi firma i Contratti a Roma. Per quanto riguarda il Consiglio di fabbrica noi proponiamo l'elezione diretta da parte dei lavoratori di tutti i componenti, su scheda bianca, a prescindere dai Sindacati: il Consiglio di fabbrica deve ritornare ad essere l'espressione consiliare di tutti i lavoratori e non dei mandarini sindacali. Solo in questo modo è possibile iniziare a riattivare il protagonismo operaio, ricostruendo dal basso un movimento forte e deciso per riprendere la mobilitazione, la lotta, l'opposizione.
CONTRO IL BLOCCO DEI CONTRATTI
LA MODIFICA DEI SALARI PRIVATIZZIONE
Soprattutto contro le scelte governative e padronali - in combutta con CGIL-CISL-UIL - miranti ad attaccare brutalmente e concentricamente il potere dei lavoratori e le loro conquiste normative e salariali (soprattutto con i licenziamenti, il taglio della spesa pubblica attraverso: il blocco dei Contratti del Pubblico Impiego, la modifica del salario - riducendo drasticamente le quote non sog-gette a contrattazione - la diminuzione delle pensioni, l'attentato di nuovo alla scala mobile, la pri-vatizzazione dei Pubblici Servizi). Su questo vogliamo essere chiari: noi non siamo pregiudizialmente o ideologicamente contro l'introduzione nelle Pubbliche Amministrazioni. Ma quello che sta succedendo è ben altro! Si trasferiscono nelle Poste come nei Trasporti produzioni economicamente vantaggiose al privato lasciando le perdite al pubblico. E soprattutto - perché non dirlo - si dequalifica il pubblico volutamente, spesso da parte degli stessi dirigenti aziendali - per poi poter giustificare la privatizzazione. dire che la privatizzazione dei Servizi viene a colpire soprattutto i ceti più deboli: le donne Innanzitutto e i pensionati, gli studenti, i pendolari. Il problema vero allora è far funzionare I Pubblici servizi: dalla Sanità alla scuola ai trasporti. Non Privatizzare.
CONTRATTAZIONE REGIONALE
Mi avvio alla conclusione: prima però voglio sottolineare una nostra idea forza che come accen-navo inizia sia pure timidamente a far breccia anche negli altri Sindacati: mi riferisco alla Contrattazione regionale e alla regionalizzazione del Pubblico Impiego. Finché i contratti, pubblici e privati non saranno pensati, decisi, costruiti e firmati qui in Sardegna poco spazio ci sarà per le esigenze dei lavoratori sardi: Trentin, D'Antoni, Benvenuto a Roma confe-zioneranno ancora una volta abiti che mal si attaglieranno ai nostri bisogni: e difatti non può essere un caso che in Sardegna i contratti nazionali trovino una maggiore opposizione che in Italia: pensia-mo solo all'ultimo Contratto chimico e della Scuola. Si tratta (li un obiettivo difficile, duro? Certo, ma parafrasando una famosa battuta di John Beluski tratta da "AnimaI house" - più il giocosi fa duro e più a giocare sono i duri.


FINALITÀ IDEALI DELLA CSS
E noi tali dobbiamo essere. Oltre che più forti: quantitativa niente e qualitativa mente. Ma per questo occorre davvero che tutti gli iscritti alla CSS diventino quadri, militanti, dirigenti, attivi e fantasiosi, diventando intelligenze diffuse, cuori pulsanti che ricercano l'unità con tutti i lavoratori negli uffici e nelle fabbriche: ma sui contenuti e non sulle sigle sindacali o di Partito. Che sanno andare oltre la discussione tutta ripiegata all'interno o la polemica velenosa per incrociare i lavora-tori, costruire trame che avvicinino i soggetti sui bisogni, gli interessi, le finalità. Perché un Sindacato deve attrarre - prima e oltre che per i suoi programmi - per le sue idealità e finalità, e le nostre sono alte: vogliamo dare l'assalto al cielo. "Non vogliamo che ci siano sempre Governanti e governati, vogliamo invece creare le condizioni in cui la necessità di questa divisione sparisca"- (Gramsci). "Perché non succeda più che i più forti esercitano il potere e i più deboli vi si adattano" (Tucidiche, dialogo fra i Meli e gli Ateniesi). E non vogliamo più che ci siano per usare l'espressione lirica, colorata e intensa dell'amico e compagno Francesco Masala, da una parte i mattimannos e dall'altra i laribiancos. Siamo utopisti e irragionevoli? Può darsi! ma di quella irragionevolezza di cui parlava un caustico esponente della cultura europea del primo '900 quando affermava che l'uomo ragionevole si adatta al mondo, l'uomo irragionevole vorrebbe adattare il mondo a se stesso: per questo ogni progresso dipende dagli uomini irra-gionevoli.


Francesco Casula



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